Che cosa dunque mi aveva conquistato nel gesto di mia madre, il giorno che mi porgeva il cestino con la colazione, in vista della gita con gli amici? Il gesto dell’accudimento. Lo associo mentalmente ad un altro gesto vissuto. Il luogo era un ospedale. Era un ospedale specializzato in un tipo di malattia che richiede una certa modalità di isolamento; e il dolore che si respirava nelle sue corsie era lo stesso di ogni altro luogo simile. Si respiravano anche: sgomento, isolamento, solitudine. Quindi accadeva che – come in tutti gli ospedali, ma certamente anche come in tutti i luoghi di reclusione, salvo si intendespiacevoli eccezioni – i momenti della visita del personale erano un momento di svago, di normalità. C’erano il rito della distribuzione delle medicine ad ore estabilite e c’era un altro momento che oserei dire, esagerando un po’ gradevole, quando le infermiere venivano a rifare i letto. Di solito si trattava di due giovani signore che agivano con gesti abili e veloci sulle lenzuola, senza costringerti ad alzarti. In perfetta sincronia sollevavano leggermente il materasso dalla parte dei piedi e sistemavano il lenzuolo e la coperta. Con la medesima sincronia una da una parte e una dall’altra sistemavano o meglio rimboccavano le lenzuola ai lati del letto. Di solito queste signore varcavano la soglia della corsia sorridenti e conservavano sul volto il loro sorriso per tutto il tempo della operazione di riordino del letto. Non competeva loro evidentemente di chiedere notizie sulla salute o sull’umore della persona che su quel letto stava, ma con tutta evidenza il loro compito era un altro: era il gesto dell’accudimento….