da: Sulla porta – di Francesco Samorè.
Ci sono i vicini. Comunque sia, sulla soglia ci sono i vicini, mi guardano spesso. Se stanno bene, mi sorridono. Se sono allegro, ricambio. Oppure abbasso la testa, non mostro soddisfazione, la tengo per me. D’altronde la porta si può anche chiudere. Se uno decide di tenerla aperta. giorno e notte, significa che accetterà i sorrisi, ricambierà, “buongiono”, “a lei”, farà cenni con la mano. con le sopracciglia, con la testa (in segno di confidenza). La porta è sempre aperta e io sulla soglia. Ho passato giorni felici qui, scegliendo al mattino se stare dentro o fuori, sullo zerbino o sulle mattonelle di terracotta. Non hai idea, cara, di come possa cambiare, da dentro a fuori. Non hai idea, ma puoi fartene una, se pensi bene. Pensa ai vicini. Nervosi se mi trovavo sullo zerbino, calmi se mi trovavo sulle mattonelle. Eppure è un passo, cara. Si tratta di un passo. Escono dall’ascensore, con le borse della spesa (se è venerdì sera). mi vedono e io li vedo, sussultano un momento come faresti tu per l’agguato del gatto. Un sospiro di sollievo: certo, sono io, in piedi, le mani giunte dietro la schiena. Come tutti i giorni. Solo un poco avanti, oltre le mattonelle. Più vicino a quell’altra soglia. Si difendono con un brivido, non per farmi torto. Temono che un giorno farò un altro passo. Non sanno che è impossibile, cara. Non sanno che provo da sempre vergogna a guardare oltre le loro mattonelle. Poi il piano, il nostro piano della casa, si riempie di fragola e menta. Il profumo di lei e il dopobarba di lui. Guardo oltre la soglia. Una cucina di metallo, color metallo, un piano di marmo, uno spicchio sempre più stretto di luce calda, doppia mandata e catenaccio. Di nuovo la luce fredda della terra di nessuno. Ricordo il capodanno. I vicini in vacamnza, emozione e brivido di vedere tutte quelle valigie riempire lo spazio, scomparire, riapparire dopo giorni, ancora ammonticchiate fino a sfiorarmi le scarpe. Il rimpianto di non vedere le scale, dietro a quell’angolo; per le scale non passa nessuno, mai. Ma suoni e profumi diventano vivi. Chi ha detto che la soglia è un confine? Lo hai forse scritto tu, cara, in quella lettera vecchia e rabbiosa che mi fece piangere? Dove lo metti quell’immenso pianerottolo, enorme quanto i passi che separano il mio zerbino dalle loro mattonelle? Da bambino dicevo “Arimo”! tra le colonne di marmo della scuola. Significava che il gioco lì era sospeso. Gli altri tutti fermi. Per dire Arimo ci voleva una buona ragione. si trattava di una tregua. Arimo era la terra di nessuno. Sicuramente sul tuo mappamondo di vetro, quello che non guardi mai, c’è un posto che ha il nome di quella terra. Comunque pianerottolo non significa nulla. E’ il nome d’arte del campo minato. Io non riesco più a fare il passo, e aspetto. Forse un giorno smetterai di portarmi le lettere. Smetterai di mangiare con me sulla soglia. Spero che stasera arriverai presto e mi farai un sorriso. Magari incontrerai i vicini in ascensore. Sarà divertente vedervi insieme.
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