Fuori di sé. E’ accaduto ancora oggi; che cosa? Che all’interno di un autobus, dove tutti sono atomi a se stanti, l’uno estraneo all’altro, ognuno contenuto, di norma, qualcuno si estrinsechi. Avviene nei modi più vari: c’è l’uomo – o la donna – che parla da solo a voce alta; c’è chi improvvisa comizi, o impreca. Una specie di disagio profondo prende gli altri intorno, quando accade.
Ma, cosa accade? Accade che qualcuno interrompa i dialoghi interiori, spezzi le solitudini atomizzate inserendo il teatro. E al teatro non si può non partecipare; ma è uno spettacolo, cui non si è preparati, in questo caso. E il disagio da cosa viene? Dal percepire – noi – il teatrante dentro di noi , specchiato nella performance dell’uomo che si estrinseca. I pudori, nell’uomo che si estrinseca, non esistono; quei pudori che frenano il cosiddetto uomo normale; ma la oscenità dell’impudicizia fa fremere qualcosa dentro di noi, come se, come se la stessa impudicizia celata dentro di noi uomini e donne normali sull’autobus, che comprime e costringe, cominciasse ad agitarsi per uscire, in un contagio che noi avvertiamo. E che subito rimuoviamo. Nella lotta tra i due – uscire e comprimere dentro – c’è un profondo disagio.
Oggi l’uomo, che mi parve essere un sudamericano, stava seduto dietro di me, batteva ritmicamente sulla latta del cassone sotto cui c’è la ruota. Batteva ritmicamente in modo continuo, perfetto: un concerto, un tambureggiare continuo. Pensai che fosse – l’uomo – un africano che rievocava i ritmi della sua terra, che non poteva fare a meno di riprodurli nella ovattata, sterile atmosfera di un autobus pieno di tante solitudini che ingigantivano la sua, di solitudine. Il giovane ha continuato così, n modo ossessivo, io lo percepivo così, sì ossessivo quel ritmo lo era! Ma altre persone intorno a me non sembravano provare disturbo nel profondo; o almeno a me sembrava così. Per me era quasi intollerabile; come sempre in altre circostanze, quando parlano ad alta voce, o comiziano o anche dicono oscenità, o incalzano le persone intorno con domande e provocazioni. Sull’autobus, i matti. Così sono, così diciamo noi…Canticchiava anche l’uomo, e fischiettava. Sembrava non potesse fare a meno di fare tutto quanto ho descritto. Era bravo, forse era un musicista. Forse stava esplodendo, semplicemente esplodendo, nella ovattata atmosfera, sterile, compressa, piena di indifferenza. Qualcuno si girava a guardare, ma solo per un attimo. Un po’ di disagio. O di paura. Io fremevo. In altre circostanze analoghe, di solito scendo prima del tempo. Stasera non potevo farlo, ero troppo desiderosa di arrivare a casa. Con sollievo mi accorsi che si alzava, dietro di me. Allora mi accorsi del suo volto. Era giovane, sui trent’anni, forse. Aveva uno sguardo spavaldo. Si girò a guardare per un attimo la gente che lasciava sull’autobus, prima di uscire. Il suo sguardo era di sfida. No, forse no. Era come quei matti. Ma rimane il fatto che sarei uscita volentieri da quell’autobus, per non sentirlo più; e che solo una grande stanchezza mi ha trattenuto. Che strana cosa! Fuggire! Da cosa, poi…
Germana Pisa 1 febbraio 2006 Scrittura per la rivista Qui Appunti dal presente