G era un luogo che continuava a vivere in ogni fibra del mio corpo, che mi abitava e che io abitavo; anche se ormai abitavo altrove da tempo. Essere abitata significava che mi procurava un senso intenso di piacere il rammentarmi di lui. Abitarlo significava che non lo avevo mai veramente lasciato e che, per converso, il luogo dove apparentemente stavo abitando aveva una concretezza meno definita di quell’altro. Quando tornavo fisicamente nel luogo che mi abitava lo spirito provavo una sensazione di appagamento indescrivibile, come quella volta – appunto – che, entrando in paese, e prima della grande piazza, mi fermai a trovare l’amico ciabattino. Lui batteva sul desco con quella sua aria tranquilla di chi non ha l’aria di aver mai desiderato di far altro che quello che stava facendo: occuparsi nel miglior modo possibile della scarpa che stava riportando a miglior vita. Io mi ero seduta di fronte a lui su di un basso sgabello e probabilmente avevo esternato il piacere che provavo nel trovarmi lì. Lui certamente aveva capito la natura del mio senso di benessere.