Sarà stato poco più dell’anno 2000 quando conobbi, attraverso internet, non ricordo se in un sito o in un forum di discussione – (antenati questi erano dei social forum, facebook forse non era ancora neppure nella mente di Zuckeberg) un uomo, un volontario di attivismo civile, molto conosciuto nel suo ambito, il cui nome – come quello della associazione che aveva creato – veniva fatto quasi ogni settimana e almeno una volta, in radio soprattutto, e che veniva citato con importante rilievo per qualche sua iniziativa di cittadinanza attiva – a difesa dei diritti, a scoperchiare soprusi – Non dirò di più che già è molto e si capirà perchè. Non ricordo perchè mi chiese di incontrarlo e perchè diedi evidentemente il mio assenso; e quindi venne qui a casa, e parlammo. E’ molto probabile che lo scopo della conoscenza reciproca e dell’incontro specifico fosse – anche se non dichiarato – il desiderio da parte mia di conoscere meglio quel suo attivismo ed eventualmente dare una mano; da parte di lui forse fare effettivamente conoscere il suo lavoro e cosa lo motivava. Ma chissà poi se quello! Fatto sta che non passò molto che l’uomo cominciò a parlare di sè sotto un aspetto diverso da quello che mi aspettavo avrebbe fatto; e cominciò a descrivermi quelle che erano le sue quotidiane ossessioni: ovvero quei riti quotidiani di ripetizione di certi gesti più e più volte prima di accingersi ad una attività, per esempio a uscire di casa. Compresi che si trattava di ossessioni dolorose e lo compresi dalla intensità con cui l’uomo me le raccontava e dal numero di esse, dalla frequenza con cui lo tormentavano. Chi avrebbe mai detto che l’uomo conosciuto, ammirato, dedito alla causa della difesa dei diritti del cittadino, attento a cogliere ogni ingiustizia per porvi rimedio, per parlarne pubblicamente, per scriverne con competenza fosse prigioniero di quella corazza dolorosa di costrizioni che in psichiatria ritengo siano conosciuti come “coazione a ripetere” ? Si tratta di gesti scaramantici che in qualche misura io pure nella adoloscenza avevo conosciuto – si tratta di gesti che se non vengono compiuti si ritiene – forse questo – ci accada qualcosa – Si tratta di una prigione psicologica. Ma l’uomo non poteva sapere di me che avevo provato e tuttavia forse aveva intuito da qualche cosa, forse per la acuita sensibilità di persone sofferenti che in qualche modo potevo capirlo. Certo è questo – aveva bisogno di sfogarsi. Non cercava soluzione, ma condivisione – Voleva far sapere chi era e come era e voleva farlo sapere a me che poi in seguito non ha più incontrato ne’ sentito, e con cui mai più ha parlato. Ma gli era bastatto parlarmi una volta o forse gli era bastato parlare una volta- non dico con me ma con chicchessia quel giorno fosse stato sulla sua strada – Mi domando: sua intenzione primaria era stata proprio quella di incontrarmi per sfogarsi – e perchè con me che non conosceva minimamente se non forse per avermi letto in un post? O forse voleva solo parlare del suo lavoro e magari chiedere la mia collaborazione e invece qualcosa del mio atteggiamento lo aveva convinto ad aprirsi? Parlava con affanno, mi descriveva insistendo con angoscia nella voce i particolari dei rituali cui si sentiva costretto sottoporsi. Ripensandoci, qualcosa di simile se pur con intensità minore può accadere – talvolta in giorni di fretta o tensione particolari – ad ognuno di noi: a chi non è mai capitato – io almeno questo credo – di tornare indietro mentre già si sta chiudendo la porta per uscire non ricordandosi se si è chiuso il gas o il rubinetto dell’acqua. Questi momenti ansiogeni nell’amico che sedeva accanto a me in salotto erano moltiplicati per cento e il tormento che procuravano pur non potendo ignorarli ma dovendo ad essi inchinarsi era palpabile nel pathos crescente con cui l’uomo me ne parlava. Io lo ascoltavo con attenzione e partecipazione; ero un po’ sgomenta ma attenta, in me, che questo sgomento non uscisse troppo allo scoperto; che con il mio modo di ascoltare, con l’atteggiamento proteso del mio corpo, con lo sguardo con tutta me stessa desideravo – anzi – comunicare a lui che lo comprendevo e che partecipavo il suo sgomento. Volevo che percepisse che non ero scandalizzata, che non mi “crollava” la sua immagine, quella pubblica che lo circndava di attenzione e di stima – sentimenti che probabilmente facevano da puntello, da sostegno al suo io, ne sostenevano quasi materialmente io credo la struttura che rischiava di andare in frantumi ad ogni passo che compiva, ogni volta che si sentiva aggredito dalle sue ossessive manie. Dopo aver parlato forse per un’ora – lui quasi esclusivamente, impedendomi quasi di interloquire, arrivò il momento del congedo. Io gli dissi “ci sentiamo ancora” e lui con sguardo un po’ angosciato e scuotendo impercettibilmente la testa fra sè e sè mi fece cenno di no o espresse qualcosa come se fosse un dubbio che ciò sarebbe mai più avvenuto. E infatti non avvenne più che sentissi o rivedessi Luciano. Il nome è di fantasia, Mi è tornato alla mente il ricordo di quell’incontro giorni or sono rivedendo il nome e cognome dell’uomo mentre scorrevo un archivio di posta elettronica. Mi sono subito detta che non avevo più sentito il suo nome alla radio nè avevo letto di lui nella cronaca locale o nazionale di un qualsiasi quotidiano. Avrà lasciato perdere tutto, tutta la sua attività, non ce la aveva fatta più a reggere il doppio ruolo, quello pubblico, sicuro di sè, dispensatore di sicurezza e di sostegno alle battaglie degli altri, e quello privato di uomo fragilissimo al punto da rischiare di andare in frantumi ad ogni passo o forse ad ogni respiro?!
germana pisa 18 febbraio 2017