Dello zio Davide ricordo alcuni gesti, il tono di voce, il sorriso, e alcuni fotogrammi, di cose viste da me, o elaborate da cose che di lui mi hanno detto. Di mio, ricordo il gesto di stringere nella morsa il pezzo di legno per il prossimo giocattolo, e lo faceva con maestria, pur avendo una mano sola; di mio, ricordo lui seduto nell’ufficio assieme al veterinario, scrivere una pratica riguardante il macello di cui era custode: scriveva e teneva appoggiato al corpo l’altro braccio, che terminava nel moncherino: la mano la aveva persa in guerra, come bersagliere; di elaborato: che lui diceva di vedere i fuochi fatui levarsi dal terreno la notte; di mio, ricordo che gli ero in braccio una sera che una bomba scoppiava in lontananza. Un mattina di inverno poi, guardando dalla finestra della cucina la nebbia era così fitta che non si vedeva niente e questa fu l’immagne che ebbi quando arrivai in cucina che lo zio mi fece scendere dalle spalle che gli ero a cavalcioni e mi depositò sulla sedia; davanti a me, sul tavolo una tazzona di latte quanto dolce, con dentro tanto pane a fare una pappa. Di certo ricordo anche alcune delle scale che avevo sceso dalla camera dove mi aveva fatto alzare e poi messo sulle spalle a cavalcioni. La stanza da letto era fredda.
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