Quando una notte sognai (mai altro sogno fu espressione così vera di un desiderio) di danzare sulle punte, vestita del tutù, nella piazza del paese, volteggiando in tondo in quell’anfiteatro che è un capolavoro, era il periodo in cui quel borgo per me era il luogo ideale, quello nel quale affondavano radici profonde, quello in cui, tornandovi dopo gli anni dell’infanzia, mi sentivo pienamente a casa. Ma c’era anche qualcosa di più del sentirsi a casa: c’era un benessere che si impossessava di tutte le fibre del mio essere, e ci fu una volta in cui mi sentii tutt’uno con il tramonto che incendiava le case, esaltandole e comunicandomi uguale esaltazione estetica ed emotiva, assieme a un moto di amore per tutte le cose e la gente intorno. È, quello di quel giorno, uno dei momenti della vita che s’incarnano nella memoria rinnovando una emozione intatta, non scalfita dal tempo.
Il tempo avrebbe avuto modo di lasciare il suo segno, ma allora era presto per questo. Ero ritornata a Valsole e mi ero fermata a salutare l’amico ciabattino che lavorava nella bottega affacciata sulla via principale: era, quell’uomo, una persona nella quale vedevo i tratti della perfezione, per la sua umanità, semplicità, cortesia dei modi: ma anche, forse, perché era per me una figura paterna. Fu quel giorno, mentre parlavo con lui rievocando il passato e sentendo il calore della sua voce e il calore dentro di me, mentre il tramonto incendiava le pietre antiche delle case intorno, che provai quel moto di felicità straordinaria di cui ho detto; che attribuii senz’altro alla bellezza del luogo. Per me il paese era il posto più bello del mondo.
Lo era a tal punto che un giorno pensai che lì avrei voluto tornare a vivere. Fu quando mi ribellai alla famiglia e cercai un’emancipazione fino a quel momento resa ardua da condizionamenti dentro e fuori di me. Era d’estate, e dalla riviera dove ero in vacanza non volli tornare in città: fu una ribellione che ancor ora, pensandoci, mi domando come potei avere la forza di mettere in atto.
Mi feci assumere come cameriera in una pensione e provai di lì in avanti le gioie e i dolori dell’indipendenza. Tra le gioie c’era quello che credevo essere un amore; e fu dall’oggetto del mio amore che mi feci accompagnare a Valsole, al termine della stagione.
A Valsole abitava Lucia, che mi aveva ospitata assieme alla mamma – sua nipote – nel tempo di guerra. Abitava in una povera casa, dopo che aveva dovuto lasciare quella che aveva condiviso col marito, dipendente comunale, alla sua morte: era la casa dove, con loro e la mamma, avevo trascorso l’infanzia.
Mi presentai alla zia e, se la memoria non m’inganna, non pensai nemmeno per un attimo che avrebbe potuto non accettarmi! Ero stata la sua bambina adorata, quella che, soleva dire, portava in palmo di mano. Aveva sofferto quando gli eventi mi avevano riportata in città, aveva sempre sognato per me grandi cose. Avrebbe potuto ora non capire cosa mi muoveva da lei?
È strano come solo ora, scrivendo, mi accorga di quanto ero cieca nel mio desiderio di libertà, di affetto, nel voler rivivere e far rivivere, in fondo, il passato. Se anche per un attimo Lucia può aver rivisto in me la bambina che portava in palmo ed io in lei la fonte di sicurezza e di affetto, l’attimo dopo lei potè vedere in me la donna inquieta che non aveva remore a portare in giro la sua inquietudine e la sua sete di vita, ed io potei vedere in lei la donna che reagiva con durezza al manifestarsi delle mie esigenze e dei miei sogni. Qualcosa si infranse presto tra noi, anche se non mancavano momenti di affetto, condivisione, speranza.
In quel periodo assegnarono finalmente a Lucia un appartamento più confortevole e degno: io mi occupai del trasloco e, in seguito e con piacere, della cura della casa, insieme alla zia. In quel momento di serenità, di ritrovata seppur incerta libertà interiore, cominciai a provare il desiderio di coltivare un mio sogno: scrivere.
Avevo preso contatto con la redazione del giornale della provincia e, dopo i primi articoli presentati e pubblicati, mi fu proposto di continuare nel praticantato. Questo non mi portava alcun vantaggio economico, c’era solo un rimborso spese per i viaggi con cui portavo il materiale alla redazione. Ero felice, ma il mio attivismo unito a un bisogno crescente di libertà riaccesero, con Lucia, un conflitto che pareva sopito; cui si aggiunsero i pettegolezzi della gente, che arrivavano alle orecchie di lei. Ella finì per pormi condizioni che non avrei potuto accettare e dovetti andarmene dal paese.
Avevo certamente commesso i miei errori, primo tra tutti quello di aver creduto di poter ritrovare un tempo e un luogo ormai perduti. La ricerca avrei dovuto proseguirla all’interno di me…
Non tornai al paese se non dopo molto tempo, e quando avvenne tutto mi parve diverso se non irriconoscibile. Le pietre antiche non brillavano al sole, la gente non mi riconosceva e io non riconoscevo i volti di un tempo. La piazza che tanto amavo, con la sua armonia di linee e la corona dei portici, con lo storico palazzo e la Torre, non mi comunicavano più l’emozione di un tempo. L’argine, sullo sfondo, mi sembrava chiudere il paese di sotto in una prigione, piuttosto che far immaginare, di là, il fiume. Nel complesso: un fondale di cartapesta avrebbe potuto sembrarmi più vivo delle strade e delle cose che avevo amato e in cui mi ero riconosciuta per tanto tempo.
Anche la casa d’infanzia, che visitando pensavo di provare – almeno lì – un’emozione, non mi parlava come un tempo; anche se le aiuole erano allo stesso posto, se nel viale di accesso si poteva sentir scricchiolare sotto i piedi la ghiaietta bianca come una volta, se l’orto era ancora là e se persino gli occhi della casa erano dello stesso colore e si affacciavano sulla stessa strada, dove il traffico era sempre rado, dove in fondo c’erano il canale, i campi, la fattoria degli amici che nel tempo di guerra ci avevano fornito i prodotti della loro terra. Quelli di cui conservo il caro ricordo e che visitai; per accorgermi, poi, di chiedere loro ancora qualcosa: ascolto, affetto, prima ancora di ricordarmi di dire ancora una volta grazie per quanto avevano fatto per me e per tutti noi!
Un tempo, negli anni cinquanta e sessanta, Valsole era stata una culla dell’arte naìf: avevo conosciuto molti pittori. Era stato un tempo glorioso quello. Cesare Zavattini aveva espresso nel paese il suo mecenatismo, come in tutti gli altri borghi intorno. Come fiori spuntavano gli artisti in ogni dove nella pianura, a quel tempo. Alcuni erano diventati famosi, altri erano tornati nell’ombra e di loro non era rimasta traccia nel ricordo della gente. Ma Valsole ha ospitato anche un grande e tormentato artista, pittore e scultore, noto ovunque. I suoi quadri e le sue sculture ispirati al mondo animale e alla sua violenza e grandezza, eco del tormento dell’animo suo, sono ospitati nei maggiori musei. Di Valsole sono poi alcuni nomi noti che lavorano nello spettacolo. Il paese era, e certo è ancora, luogo fertile di fermenti che trovano alimento nella sua storia, nella natura come nella particolare sensibilità di coloro che animano la sua vita culturale.
La volta che tornai al paese Lucia non c’era più. Oggi voglio ricordarla qui con rinnovato dolore e rammarico profondo per non aver saputo conservare il suo affetto e soprattutto darle tutto l’affetto che sicuramente cercava da me. Mi vergogno di dire che non la vidi più dal giorno in cui me ne andai. Non voglio attribuirle alcuna colpa. Io non avevo capito. Nella mia sete d’indipendenza avevo sconvolto la vita di una donna ormai stanca e delusa, aggiungendo al suo fardello di vita una delusione ulteriore. Non poteva più, Lucia, portarmi in palmo di mano. Questo fu il suo punto di vista e lo rispetto. Non poteva più accettarmi. Avevo commesso errori che forse neppure io, in un altro, avrei potuto perdonare.
E poi, infine: se le pietre non mi parlavano e non brillavano più al sole, forse era solo perché prima o poi il mondo delle fiabe lo dobbiamo lasciare.
Parecchi anni dopo la mia ultima visita, scrissi una poesia pensando al paese e al suo fiume. La intitolai: il ramo il fiume la rincorsa. Valsole era stata sommersa dalla disastrosa alluvione del 1951 e l’acqua aveva trascinato via per giorni cose, animali e ogni altra forma di vita. Quell’evento forniva a me, ripensandolo, gli strumenti simbolici per mettere in scena, attraverso la forma poetica, un pezzo importante della mia vita.
Finché un giorno
Germana Pisa
seppi che il fiume, laggiù,
era uscito dagli argini
e seppi che, da giorni,
trascinava con sé ogni cosa
ogni vestigia del passato…
e anche – mi dissero –
ogni dolore antico, ogni tristezza, ogni ricordo.
Pubblicato nel libro “Luoghi e viaggi nel cammino della mia vita” ed. BCM, 2008.